Raimon Panikkar

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Il Cristo sconosciuto dell’Induismo
Verso una Cristofania ecumenica


Come il grande maestro giapponese Dôgen, anche Panikkar sembra riprenda spesso da capo la scrittura di molte delle sue opere. È il caso anche della sua tesi di laurea in teologia, scritta nel 1961 e pubblicata a Londra nel 1964, e poi ripresa, in diverse tappe, con edizioni rivedute e trasformate, in varie lingue, di cui questa è la più recente. Quello delle relazioni tra cristianesimo e induismo è in ogni caso un tema portante della ricerca e dell’esperienza di una intera vita, cui ha dedicato anche molti altri scritti, a testimoniare una esplorazione esperienziale. Perché «posso liberarmi da un certo cristianesimo o induismo (e altrettanto vale per un certo tipo di buddhismo o secolarità) solo cercando di essere un migliore cristiano e un miglior hindù, un miglior buddista e un miglior cittadino del mondo». Un libro scritto “con la propria vita” e “pagato con il proprio sangue”.
La storia del titolo è chiarificatrice. Pensata in origine come sottotitolo, dietro suggerimento di Bede Griffiths l’espressione “il Cristo sconosciuto dell’induismo” diviene centrale, perché centrale è l’esperienza e la sapienza intrareligiosa di cui è espressione: «il modo più positivo di superare una tradizione non consiste nell’uscirne come se fosse una qualsiasi associazione, ma nel vivere più profondamente (autenticamente) tale tradizione, ossia “trasmetterla”, e così trasformarla…». Ecco quindi la dinamica trasformativa insita nella relazione aperta tra un traditum e un tradendum.
Il tema centrale di questo volume è infatti una riflessione intrareligiosa e cristiana, che si chiede se per essere cristiani si debba essere per forza spiritualmente semiti e intellettualmente greci. Per essere cristiani, si badi. Non è peraltro certo che l’umanità sia uscita dalla fase infantile nella concezione del rapporto tra la propria religione e quella degli altri, ossia quella fase in cui si pensa che la propria sia la sola vera religione e tutte le altre siano false, e ciò vale anche per i cristiani. Ed ecco la testimonianza panikkariana, tutta e integralmente cristiana, in perfetta analogia con quella del discorso di Paolo all’aeropago, ma rivolta questa volta in direzione dell’induismo: appunto, la presentazione delle tracce di un possibile cammino verso una cristofania ecumenica: «il cristiano è di fronte a un’alternativa: o porterà la sua concezione di Cristo ad altri popoli e religioni, oppure dovrà riconoscere le dimensioni sconosciute di Cristo, cercando una mutua fecondazione – che è un atto di amore».
La struttura del volume presenta tre capitoli. Nel primo si propone l’incontro tra induismo e cristianesimo sul piano ontologico ed esistenziale, perché il vero incontro tra religioni avviene fondamentalmente sul piano esistenziale: «l’incontro delle religioni deve essere un atto religioso…». Non sono sufficienti né eventuali parallelismi dottrinali né più o meno autentiche sintesi dottrinali. Il Cristo diviene simbolo concreto di un “luogo d’incontro” che ha contemporaneamente una “base cristiana” ed una “base hindù”.
Nel secondo capitolo invece si considera l’“incontro” induismo e cristianesimo tenendone presenti le dimensioni storiche e sociologiche. Si comprende alla fine che «non c’è alcuna singola analogia che possa caratterizzare adeguatamente la relazione tra induismo e cristianesimo in tutta la sua complessità». Si comprende come, nello stesso tempo, siano due religioni inseparabili ma costituiscano ciascuna “un mondo a sé”.
Nel terzo capitolo “Dio e il mondo” si esplorano, mediante l’esempio di un commento ad un passo del Brahma-sutra (I, 1,2), alcune problematiche sul piano dottrinale e intellettuale poste dalla relazione «dell’intero complesso di due tradizioni storiche tuttora viventi». Si cerca una lettura di quel passo del Brama-sutra «che non si allontani dal significato del testo e che non sia estranea alla tradizione cristiana», alla ricerca di una comprensione di possibili omeomorfismi.
L’intento è quello di porre una materia che non appartenga né all’oriente né all’occidente ma che possa mostrare a entrambi la loro reciproca inadeguatezza rispetto ad una realtà vivente che non è certo esaurita in concetti e tradizioni.
Il Cristo appare quindi come “il simbolo completo della realtà”, così lungo tutto il libro si esprime con il termine “cristiano” non il monopolio di prerogative riservate agli adepti del “cristianesimo”, ma la ricchezza di una realtà che appartiene a tutti. Il Cristo è quello sconosciuto dell’induismo, ma anche quello di cui i cristiani sono ancora solo parzialmente consapevoli.

Fulvio Manara

«Ecrire, pour moi, est autant vie intellectuelle
qu’expérience spirituelle…
cela me permet d’approfondir le mystère de la réalité.»